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Storia

Prime bombe su Atina e il grande esodo (1943–1944)

L’inizio della tragedia

Il 19 ottobre 1943 la guerra arrivò ad Atina in tutta la sua crudele concretezza.
Fino a quel giorno il fragore dei cannoni e i bagliori lontani erano solo echi provenienti dal fronte di Cassino, ma quella notte il rombo di un aereo squarciò il silenzio della Valle di Comino. Antonio Nardone, che abitava accanto al ponte sul Melfa, fu svegliato di soprassalto: una raffica di bombe cadde vicino casa, facendo tremare la terra. Una di esse esplose nei pressi dell’abitazione di Giuseppe Dragonetti, sotto la strada “Costa”; altre due colpirono l’area della Cartiera Visocchi.

Consapevoli di trovarsi in un punto strategico, probabilmente nel mirino dei bombardamenti alleati per via del ponte, Antonio e la sua famiglia fuggirono nella notte verso le colline. L’aereo tornò a sorvolare la zona, questa volta in direzione Casalvieri, e sganciò altre bombe tra la cartiera e i Guazzoli.
Antonio, scalzo nella fuga, chiese al fratello Michele di recuperare le scarpe lasciate in casa. Quando questi tornò, raccontò di aver visto una grande buca dietro l’ex cinema Melfa: la traccia evidente di una bomba appena esplosa. Fu l’inizio di sette lunghi mesi di bombardamenti su Atina e dintorni.

I rifugi e l’esodo della popolazione

Dalle prime incursioni la popolazione comprese che la città sarebbe presto diventata invivibile. Molti cittadini nascosero ciò che non potevano portare via: denaro, oggetti preziosi e documenti vennero custoditi nei sotterranei della Chiesa Cattedrale, con il consenso e l’aiuto di Mons. Arturo Di Cosmo.
Ma la generosità del parroco non passò inosservata: i tedeschi iniziarono a cercarlo con l’intenzione di impiccarlo, costringendolo a fuggire per salvarsi la vita.

Atina si svuotò in pochi giorni. Chi non riuscì a partire trovò rifugio nelle grotte e nei casolari sparsi sulle colline, mentre dai paesi vicini giungevano gruppi di disperati intenti a saccheggiare le case abbandonate: sedie, letti, biancheria, utensili, nulla fu risparmiato.
Tra gli sfollati di contrada Spineto, il giovane Francesco Sabatini osservava i soldati tedeschi con sentimenti contrastanti: rabbia per le loro violenze, ma anche una certa ammirazione per la disciplina e la forza fisica con cui affrontavano il gelo del mattino, lavandosi a torso nudo alla fontana di Piè le Piagge.

Un paese sotto assedio

Il suono delle sirene e i boati delle bombe scandivano le giornate. Le truppe tedesche avevano disseminato batterie e postazioni lungo tutta la valle del Melfa e del Mollarino.
Per sfuggire ai ricognitori alleati, gli automezzi venivano coperti di fronde e rami verdi. Gli abitanti, impauriti, si rifugiavano più volte al giorno nei sotterranei e nei magazzini delle famiglie più facoltose, mentre i ponti e le strade tra San Biagio Saracinisco, Villa Latina, Atina e Belmonte Castello erano colpiti incessantemente.

L’avvocato Roberto Fortuna, costretto dai tedeschi ad assumere la carica di Commissario del Comune, cercò di proteggere la popolazione mediando tra le imposizioni dei militari e le necessità dei cittadini, specialmente degli agricoltori.
Ma ben presto ogni forma di amministrazione locale cessò: gli uffici comunali non funzionavano più, il Comitato cittadino per l’alimentazione fu sciolto, e il pane divenne un bene raro e prezioso.

Saccheggi e piccoli gesti di umanità

Col passare delle settimane i tedeschi si fecero più aggressivi. Razziavano grano, olio e orzo dalle case contadine, requisivano perfino il cibo che la gente portava tra le mani. Tutto veniva accumulato presso il Comando tedesco, installato nei locali del Banco di Napoli in via San Nicola, dove parte del bottino veniva rivenduto alla popolazione affamata.

Eppure, anche in quell’orrore, affioravano episodi di umanità.
Un motociclista tedesco, ubriaco dopo una sosta nella cantina di Antonio Leonardi, cadde nel fiume Melfa. Fradicio e infuriato, bussò armato alla casa dei Nardone, ma fu accolto e soccorso.
Il giorno seguente ripartì, ma tornò più volte a salutare quella famiglia portando in dono sale, allora merce preziosissima.

Non mancavano soldati che mostravano rispetto e disponibilità. Alcuni aiutarono Antonio Nardone a consegnare un maiale venduto a un parente, scortandolo lungo la strada per evitare requisizioni. Piccoli gesti che, in mezzo alla brutalità quotidiana, restituivano un frammento di umanità condivisa.

I Bartolomucci di Castellone e la compagnia tedesca

Intanto, a Castellone, sotto Picinisco, la famiglia Bartolomucci viveva un’altra forma di occupazione. Il dottor Renato Bartolomucci vide arrivare una compagnia tedesca di sussistenza che si installò nella loro azienda agricola, lasciando alla famiglia solo la casa di abitazione. Erano militari anziani, reduci dal fronte, feriti di guerra, con grandi carri e cavalli possenti color della birra.
La madre di Renato, che parlava tedesco, fece da interprete e riuscì a conquistare la fiducia dei soldati, ottenendo protezione e rispetto.

Fu un maresciallo, soprannominato “Spiss” – il “capoccia” – a consigliarle di tenere lontani gli uomini di casa: il rischio di essere prelevati o deportati era altissimo.
Da allora Renato e suo fratello Giacinto, insieme ad alcuni contadini, si rifugiarono ogni mattina nei boschi sopra le centrali di Castellone. Lì trascorrevano le giornate nascosti tra le querce, giocando a carte o leggendo, mentre assistevano impotenti ai bombardamenti che devastavano Atina e la valle sottostante.

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