Dicembre, ad Atina, era un mese ricco di suggestioni, attese e rituali antichi che univano la comunità nel segno della fede, della famiglia e della condivisione. Il freddo era pungente, spesso accompagnato dalla neve, e le gelate notturne mettevano a dura prova il lavoro dei contadini. I raccolti scarseggiavano, ma chi riusciva a preservare verze e cavoli verdi poteva considerarsi fortunato. Nelle case si faceva ricorso alle scorte di frutta secca – noci, mandorle, fichi e castagne – che diventavano protagoniste anche del cenone natalizio, insieme a peperoni e verdure preparate alla c’mposta.
La nascita del Bambinello non si celebrava con gli alberi addobbati e le luminarie moderne, ma con il presepe, immancabile in ogni casa, anche la più povera. Le statuine di legno intagliate a mano e il tappeto di muschio ricreavano un paesaggio semplice e poetico. Secondo la tradizione, fino a sette giorni prima di Natale si usava infornare il pane nei forni a legna: dopodiché, lo spazio vuoto del forno diventava la nicchia per allestire il presepe, che restava fino all’Epifania.
La vigilia era giorno di digiuno. Nelle cantine si vendeva un caffè particolare, detto p’ llus’, bollito in caffettiere simili a quelle belghe, e servito caldo nelle Ciucculater’ con zucchero grezzo. Il risultato era una bevanda povera, quasi una ciufeca, che costava due soldi o una nicchella.
Il cenone di Natale cambiava molto a seconda delle possibilità economiche. Nelle case contadine non mancavano mai pesce lesso, spaghetti in brodo di gallina e i tipici pepatiegl’. Le famiglie più benestanti, invece, imbandivano tavole ricche: pizze fritte con alici, baccalà, spaghetti con polpi o lupini, capitone alla brace, bastardoni, insalate di riccia e scarola con olive paesane e alicetti. Immancabili le castagne al rosmarino e, come dolci, sesemiegli’, serpentiegli’, torroncini romboidali e altri dolci natalizi.
Lo storico dott. Ermanno Visocchi, nelle sue Memorie, racconta anche l’usanza del 10 dicembre, festa della Madonna di Loreto, quando in ogni casa si preparavano litri di caffè da offrire a chiunque entrasse. Le sue pagine descrivono l’attesa delle feste, la solennità della messa, la ricchezza del cenone – con baccalà, capitone e croccante a forma di cupola spaccato dal più anziano della famiglia – e il pranzo del 25 dicembre con la tradizionale “minestra dei gobbi”. Durante le feste, il passatempo più amato era la tombola, giocata con fagioli al posto delle pedine, tra risate, battute e schiamazzi.
Anche il Capodanno aveva il suo momento mondano: era il tempo dei veglioni, dei dolci di Alvito e delle sigarette nazionali vendute da Rusinella la tabaccara. Le sigarette straniere, rare e preziose, arrivavano su ordinazione da Roma. Successivamente la tabaccheria di Caira Giuseppina, sotto gl’ arc la Porta, iniziò a venderle regolarmente e introdusse il primo telefono a manovella, oggetto di grande curiosità per i bambini di Atina.
Dicembre era infine un mese legato alla previsione del tempo, grazie all’antico sistema delle Calemme. Dal 13 dicembre (Santa Lucia) al 6 gennaio si osservavano i fenomeni atmosferici, associando i dodici giorni dal 13 al 24 a quelli dal 26 al 6 gennaio: una sorta di calendario meteorologico che i contadini usavano per prevedere l’andamento dei mesi futuri. Particolare attenzione era rivolta alla notte di Natale: tra la mezzanotte del 24 e le dodici del 25 si annotavano i mutamenti del cielo. Se i fenomeni erano numerosi – neve, stelle, pioggia – si interpretava come segno di un anno abbondante; se invece la notte rimaneva monotona, l’annata sarebbe stata povera.
Dicembre, con le sue tradizioni, i suoi sapori e i suoi rituali, rappresentava dunque per Atina non solo un mese di festa, ma anche un tempo di comunità, di speranza e di memoria.